giovedì 28 luglio 2011

Racconto-reportage sul precariato


“Trovati un lavoro, mia cara”, sussurra suadente Anita. Ma è necessario che io parli con questa donna a prima mattina? Come se lei alla mia età faceva l’avvocato. Giornalaia eri e giornalaia sei rimasta. Ops…Volevo dire GIORNALISTA. Pubblicista. Con contratto part-time da professionista, in cui però non è prevista la frustrazione. Il giorno di capodanno mi telefona a mezzogiorno. ”Cos’hai da scrivere oggi?” abbaia. Ma cosa vuoi che scriva oggi che è il primo giorno dell’anno ed io mi vergogno? Avrei potuto raccontare della faccia che ha fatto mia madre quando ho portato a casa il primo contratto da lavoratrice a cottimo. 5 euro a pezzo. Che sia lungo o corto non conta. La paga è la stessa.”5 euro per uno scritto di cui non sei proprietario fino in fondo”,  argomentai. E lei, stranamente, mi chiese una spiegazione. ”In redazione,- attaccai- possono tagliare, cambiare, manipolare il tuo pensiero”. Mia madre rispose che questa è la gavetta. Che ci sono passati tutti. “Da qualche parte devi iniziare” , concluse. Ma mia madre non sapeva che io ho iniziato ben cinque anni fa. 

Scrivevo gratis per il primo giornale online della Capitale. Allora sognavo di diventare pubblicista. Pensavo che il giornalismo fosse una missione e collezionavo gli articoli di Oriana. “Sarò una giornalista-scrittrice!”. Sognavo ad occhi aperti e intanto lucidavo i tavoli di una ludoteca. Al giornale non mi davano un euro e le ritenute d’acconto dovevo pagarmele da sola se volevo ottenere il tanto agognato tesserino. Ero felice come un bambino sul motorino quel giorno. Averlo in mano era un’emozione. Non mi importava di essere dottore in filosofia prima e in lettere poi. Ero giornalista pubblicista. Questo mi bastava. Uscii tronfia dal Palazzo di Via Mazzini e mi incamminai a testa alta verso LA MISERIA.
A Roma l’unica alternativa alle collaborazioni volontarie era lo stage-non-retribuito-e-non-rinnovabile. Lo schiavismo legalizzato funziona così: l’università stipula un contratto con un’agenzia di stampa, loro ti sfruttano per sei mesi e infine ti gettano via come carta straccia. Sempre che tu non sia un parente di. Stefania adesso frequenta la scuola di giornalismo a Bologna, ma ha lavorato per un anno nella macelleria-stampa convenzionata con La Sapienza. Le avevano promesso un contratto. Poi è arrivato il galoppino di Alemanno e… “Ciao core”. La scuola di giornalismo è stata l’ultima spiaggia. Anche se lei sa bene che dopo 14 mila euro, 15 stage e 2 corsi di lingua, il lavoro fuori scarseggia.
“I miei colleghi pensano che diventeranno le grandi firme di Repubblica”,  mi racconta Stefania. Mi ha telefonato per chiedermi un libro in prestito e, come sempre, si lamenta. “Io ho detto a questi pivelli che nei quotidiani il lavoro non c’è e che si devono accontentare!”. Elemosiniamo cultura. E alcuni colleghi, per arrotondare, si vendono i libri ricevuti in omaggio dalle case editrici.
Daniela è una giornalista affermata. Quindici anni di ufficio stampa per una grande azienda italiana. Collaborazioni con la Rai e Il Sole 24 Ore. Tre libri. Ma il denaro non basta mai. La incontro ad un bookcrossing e lascio che si sfoghi. “Si rischia di rimanere collaboratori a vita! E quando la retribuzione non arriva mese per mese, a volte, è difficile mettere insieme il pranzo con la cena”. Nel pomeriggio Daniela farà ripetizioni di francese ad una bambina. Mi ricorda Sabrina, giornalista, scrittrice e autrice televisiva, all’occorrenza anche insegnante di lingue.
Sabrina ha appena finito di girare un documentario per Al Jazeera International ma sta per lasciare la casa in cui vive perché non può permettersela. “La guerra è solo psicologica!” sbraita. “Ti senti in colpa per ogni cosa. Ah naturalmente i figli, la famiglia, in queste condizioni te li scordi!”. Ceniamo discutendo di donne e politica e sul display del mio cellulare compare il numero di Miriam, una collega lucana. “Quando torni a Potenza sei invitata al mio party!” strilla. “Cosa si festeggia?”, domando. “Il rinnovo del contratto”. Cinque anni a 500 euro al mese, una serie infinita di vertenze sindacali ed ora esulta per un aumento di 50 euro. Mah.
“Ci vuole pazienza”, mi consola il mio caporedattore. A volte se non ci fosse lui a fermarmi farei una strage. Anita anche oggi mi ha fatto saltare la firma sotto i pezzi. Invidia, sostengono in molti. Sarà. Ma se non me ne fossi accorta avrei perso altre 15 euro. Senza contare le ore di chiacchiere, trattative, telefonate e i soliti insulti. Quelli poi non mancano mai. Tanto, come la metti metti, è sempre colpa di noi giornalisti, ops… Pardon…GIORNALAI.


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